Somewhere, over the rainbow: non riuscivo nemmeno a immaginare un posto dove l’arcobaleno non finisce mai, e la mia espressione è quella di una bambina di tre anni, uguale uguale, alle cascate Vittoria, solo dodici esatti mesi fa. Quando il mondo era grande, grandissimo, potevamo viaggiare e non dovevamo avere paura di niente (tranne della malaria, ma vabbè, ci sono cure per prima e per dopo). Oltre l’arcobaleno c’era, ma noi non lo sapevamo, un virus insidioso che ci avrebbe chiusi in casa, che avrebbe fatto – lui, sì – il giro del mondo rinchiudendo noi in una stanza e nella paura. Ora abbiamo paura degli abbracci, delle strette di mano, della vicinanza, di un colpo di tosse e di uno starnuto: a ragione, perché questo virus che non conosciamo ancora non sappiamo come combatterlo, se non con un vaccino che tutti, in tutto il mondo, stanno preparando sperando che funzioni. E abbiamo anche paura della paura che ci sta paralizzando, oltre che fisicamente, economicamente e psicologicamente. Dopo mesi di clausura la vita riprende, anche perché ce ne è tanta voglia, bisogno, necessità. Ma è davvero difficile segnare il confine fra precauzioni – che, ribadisco, è meglio continuare ad usare – e ansie. Sognando, sempre e comunque, di volare oltre l’arcobaleno per raccontare di questi mesi quando saranno diventati solo un ricordo; brutto, bruttissimo, ma un ricordo soltanto.
un anno fa, prima che chiudesse il mondo…
a cura di ELENA MORA