storia di una crociera, di una infradito, di un piccolo miracolo

La grande nave lascia una scia che muta ogni istante, visione rasserenante e ipnotica. Vorrei godermi il mio libro e le condizioni sono ideali: il niente intorno, nessuno sul balcone, lontano dalla folla e dalla musica delle piscine e dei ponti stipati e rumorosi d’agosto. Non capisco perché tanta gente consideri con assoluto snobismo le crociere: un mio amico le ha definite una disneyland con il pubblico di Domenica In. Io, invece, le trovo un ottimo modo di riposarsi, con la possibilità di leggere sul proprio balconcino – o su quello di poppa come ora – e tuffarsi fra la gente solo se e quando se ne ha voglia. Un bagno di folla che può essere anche divertente, visto che si può decidere quando inizia e quando finisce. Niente valigie da fare e disfare, posti interessanti da vedere nelle escursioni. Tra l’altro la crociera è una soluzione praticamente perfetta per chi, come me e Giò, ha una figlia adolescente: si può lasciarla girare in (quasi) tutta tranquillità, felicemente impegnata nelle attività di animazione, chiedendole solo di farsi viva ogni tanto e quando è ora di andare a tavola. Contenta lei, contenti noi, contenti tutti, come ogni genitore di teen ager sa più che bene. Chi non ha figli può pensare che sia una diseducativa delega all’educazione e una gestione leggera e noncurante di una ragazzina: provino a stare con una tredicenne una settimana e ne parliamo. Poi, comunque, sulla nave si incontra gente. Tanta gente. E, per la legge dei grandi numeri, a volte persino gente interessante. Con storie curiose, come quella su cui sono qui ora a pensare, fissando la scia che sfoggia tutte le sfumature di azzurro, cambiando a ogni istante. A riflettere sulla vita e sulla morte, su casualità e destino, su libero arbitrio e fattori ereditari. Roba pesante, vero? Ma, per quanto possa sembrare incredibile, tutta questa storia inizia da… una infradito di gomma. Rotta.

 

Sara era arrivata in cabina fuori orario: segno certo che qualcosa non andasse. Il fatto che zoppicasse vistosamente, poi, ci aveva preoccupato. Ma solo per un attimo.

“Mamma, mi si sono rotte le infradito!”

Non “ho rotto” ma “mi si sono rotte”. Con un dativo di svantaggio in aggiunta. A suo vantaggio invece un ragazzino, più o meno della stessa età, che da garbato cavalier servente la segue come un ombra. Lui è Pietro. Di Torino. Pietro-di-Torino garbatamente saluta e ancor più garbatamente chiede:

“Se lei permette signora, io potrei provare ad aggiustare le infradito. Ha per caso una penna biro?”

Sì, certo, rispondo a tutte e due le domande mentre fra me e me mi chiedo da dove esce un adolescente di questo tipo. Gentile, educato, garbato. Certo, Pietro-da-Torino già la dice lunga sulla rigorosa educazione sabauda, ma credevo che ragazzini così si fossero estinti da un secolo sulla faccia della terra. Comunque. La mia unica alternativa è quella di buttare le infradito rotte e dare a Sara i soldi per acquistarne un nuovo paio. E i negozi a bordo, si sa, non sono proprio economicissimi. Quindi. Gli porgo una bic qualsiasi, e lo guardo incuriosita. Prende il cappuccio della penna, rompe quella piccola freccia che si allunga verso il basso, afferra la infradito infortunata e conficca la piccola freccia sotto la suola, a fermare il perno della ciabattina di plastica, in sostituzione del fermo piatto e tondo irreparabilmente perduto. La porge a Sara come se fosse la scarpina di cristallo di Cenerentola e lei la indossa quasi con la stessa cura. Una curiosa scenetta che si svolge, sotto i miei occhi increduli, quasi al rallentatore. Ma subito i due riprendono la velocità consueta. La suola morbida ammortizza lo spessore della riparazione fai da te e lei può ritornare in pista, sia metaforicamente che in concreto, verso il suo corso di danza indiana, sari compreso. Io al mio libro. Felice dello scampato pericolo.

 

La sera, in teatro, rivedo Pietro-di-torino. Lo saluto, saluto la madre o quella che immagino che sia la madre, una signora elegante, dal profilo importante, seduta accanto a lui.

“Suo figlio è un genio”. Esordisco.

Una cosa che ho imparato nella vita (una delle poche) è che i complimenti per i figli fanno sempre piacere ai genitori, e di solito esagero un po’: ma in questo caso non potrei essere più sincera.

“Non sarei riuscita a trovare una soluzione di quel tipo nemmeno in una successiva reincarnazione”. Lo dico e, questa volta, davvero lo penso.

“Come gli sarà venuto in mente quel modo di aggiustare la ciabatta?”.

Non mi aspetto ovviamente una risposta specifica, ma una reazione di legittimo orgoglio. Che non arriva. Al suo posto un sorriso sottile. Un luccichio ironico – o triste? – degli occhi azzurri. E, in attesa dello spettacolo, una storia. Che la mamma del mio genio inizia a raccontare senza enfasi, senza toni drammatici. Rendendola, in questo modo, ancor più toccante.

 

“Mio padre era un avvocato. Come me. Siamo avvocati da tre generazioni. E siamo ebrei. Levi. Ma prima ancora che per il nome, come può vedere, ci si riconosce per il profilo. Mio padre era anche docente di diritto, molto ben inserito nella società torinese. Con qualche simpatia per la dottrina fascista. La legge e l’ordine, i treni in orario, quelle cose lì. In assoluta buona fede. Così non si era mai preoccupato davvero delle leggi razziali. Credeva che in Italia sarebbero state prese alla leggera, come sempre, come tutto. Il rastrellamento dei nazisti lo aveva colto assolutamente di sorpresa, mentre studiava un caso con un collega, ex compagno di studi, il suo migliore amico. Era stato preso insieme a decine di altri, trascinato fuori città e messo a scavare una buca grande e profonda. Alla fine un ufficiale ha chiesto con assoluta noncuranza se tra loro c’erano un sarto e un calzolaio. Prima ancora che il suo amico potesse capire la domanda mio padre ha fatto un passo avanti, trascinando il collega e sfoggiando tutto il suo tedesco scolastico per dichiarare: “Io sono un bravo calzolaio e il mio amico è un ottimo sarto!”. Un passo avanti e una menzogna. Una reazione quasi istintiva, sicuramente irrazionale. Un passo avanti che lo ha salvato dalla scarica di mitragliatrici che ha buttato tutti gli altri indietro, vivi, morti e feriti, nella grande buca poi coperta con la terra da una ruspa.

La sera, nella cella, erano rimasti solo loro due. Sotto choc, devastati, ma vivi. Nel silenzio spaventoso le domande ansiose del suo amico. “Sei pazzo? Questi non sono mica spiritosi! Quando capiranno che noi non siamo né un sarto né un calzolaio saranno dei bei guai! E rimpiangeremo le pallottole delle mitragliatrici…”. Mio padre è sempre stato un uomo molto concreto. Non ha perso un secondo a piangere o compiangersi. Del resto, di tempo non ce n’era molto. Senza dir nulla ha preso la sua giacca e una sua scarpa, ha steso la prima alla bell’e meglio sulla brandina e ha consegnato la seconda al suo amico. Insieme, silenziosamente, accuratamente, hanno scucito e ricucito giacca e scarpa, scarpa e giacca per tutta la notte, come se ne andasse della loro vita. La loro vita, in effetti, era appesa a quel filo sottile che richiudeva il bavero, a quella stringa infilata nel modo giusto, a quei pezzi di tessuto e pelle che, di fatto, hanno salvato la loro, di pelle. Fingendosi, e diventando nel tempo, un ottimo calzolaio, mio padre è riuscito a sopravvivere fino alla liberazione. E anche dopo, dopo che la normalità era ritornata a coprire come un sudario la follia di quegli anni, dopo essere tornato a fare l’avvocato come se niente fosse successo, ha continuato ad aggiustare le scarpe. Quasi fosse un segno di riconoscenza per quello che le scarpe avevano fatto per lui, nessuno di casa ha mai dovuto portare un sandalo a ricucire, una calzatura a risuolare, un tacco a rifare. Era il suo passatempo, il suo modo di placare l’ansia, di far tacere ricordi terribili di cui non ha voluto mai parlare. Curiosamente non ha mai voluto insegnare a Pietro, né lui bambino era interessato a quello strano passatempo del nonno. Ma, in qualche misterioso modo, quella pratica imparata nel corso di mesi così tragici è passata a Pietro. Non mi chieda come o perché…”

 

 

Non che avessi modo di domandare: da una parte stupefatta dal suo incredibile racconto, dall’altra zittita dall’inizio dello spettacolo. Ma questa curiosa storia ha continuato a lavorare dentro di me. Forse per il contrasto fra la luce del mare e il buio di quegli anni. Forse perché a volte, guardando i propri figli e riconoscendo in loro un gesto, un tic, una intonazione della voce, ci si domanda che cosa davvero si insegna e che cosa si trasmette e come. E ora sono qui, davanti alla scia della nave, a chiedermi come le conoscenze possano passare da un nonno a un nipote, in qualche piega nascosta del dna o in qualche occhiata distratta al nonno impegnato nel suo bizzarro passatempo. Mentre sul palcoscenico Sara danza avvolta nel suo sari, seguendo una musica ipnotica, muovendosi con grazia sulle sue ciabattine. Ignara del fatto che quella riparazione è carica di storia. Di una storia recente e drammatica che tanti – troppi – vogliono negare.

 

1938/2018: 80° anniversario delle leggi razziali in Italia. Questa è vera Storia, e questa è una storia vera.