sanpa secondo Piero Villaggio

Anni fa, prima che il padre morisse, ho intervistato Piero Villaggio per Diva e donna a proposito del suo libro “Non mi sono fatto mancare niente” (mondadori). Un libro intenso, in cui lui racconta della sua vita, dei suoi sbagli, dei suoi anni a San Patrignano. Ve la ripropongo perché il figlio di Paolo Villaggio, in questo incontro, è stato molto sincero, molto aperto, molto critico con se stesso, attento alle parole ma generoso di sé. Ora che sto vedendo la fiction su San Patrignano su Netflix mi hanno colpito alcune sue affermazioni. In ogni caso la testimonianza di chi c’è stato, davvero, per tre anni, può essere utile per capire di più. 

“Vorrei dire una cosa subito, in maniera molto chiara: se io sono diventato un drogato non è colpa di mio padre, è solo colpa mia”. Piero Villaggio ha un corpo sottile, abiti eleganti, mani grandi da contadino, occhi buoni; parla con passione del suo lavoro – coltiva melograni nella campagna toscana – e del suo libro Non mi sono fatto mancare niente. Un libro in cui racconta senza sconti e senza pudore la sua discesa all’inferno della dipendenza, fra truffe e rapine, traffico di droga, costose cliniche di disintossicazione in Svizzera e topaie di Los Angeles divise con un pusher e una prostituta; il carcere in Italia, per una volta senza colpa; il purgatorio di San Patrignano, esperienza durissima, fra botte e punizioni al limite della tortura, dove però è riuscito a ricostruirsi una vita. Si intenerisce quando parla del padre, Paolo Villaggio.

Tutto comincia proprio quando lei ha dodici anni e suo padre, che si è trasferito da Genova a Roma, da quel successo è travolto. Per evitare che voi figli veniate disturbati da fotografi, paparazzi o troupe televisive, vi mettono a vivere in un appartamento di fronte al loro.

“Io ho patito una mancanza. A dodici anni vivere da solo con mia sorella, a 30 metri di distanza da dove vivevano i miei, era una libidine: avevamo a disposizione una casa dove potevamo fare qualunque cosa; se giocavamo a Subbuteo e volevamo simulare il campo bagnato allagavamo tutta la casa. Io non ho mai sofferto fino a quando mi sono reso conto della lontananza dei miei genitori”.

Scrive: “eravamo pieni di governanti, di denari, di babysitter, pieni di tutto, tranne che di loro”.

“La colpa che io faccio a mio padre è che in un momento particolare della mia crescita lui non c’era. Quella è l’unica colpa. Dire che è colpa sua sarebbe troppo comodo anche perché mia sorella viveva con me, ha due anni di più, e non ha combinato niente di quello che ho combinato io” .

Nel libro cita lo scrittore Ferdinando Camon: “«Quando muore un genitore è come se cadesse l’albero sotto cui un figlio riposa». E dice: “I miei non erano morti, per carità. Ma non c’erano, e a me pare di non aver riposato più, da allora”. Ora si riposa?

“Un po’ di più. Non completamente, un po’ di più. Si cresce, si matura. Ho fatto pace con me stesso”.

E quando ha fatto pace con suo padre? C’è stato un momento, un episodio in cui il vostro rapporto è ripreso?

“Una decina di anni, fa da soli, in un viaggio in Corsica. Per la prima volta ci siamo detti delle cose che non ci eravamo mai detti. Lui mi ha detto quanto è stato difficile per lui in un momento di grande successo avere un problema di quel genere e io gli ho fatto presente quanto per me era difficile avere un rapporto con lui; e anche con mia madre. Mia madre mi aveva messo in guardia rispetto ad alcuni atteggiamenti di mio padre, per esempio supplire a tutto con il denaro; evidentemente invece a me faceva comodo”.

Avere un alibi?

“Mi faceva comodo vivere nel lusso; lui ha avuto senz’altro delle colpe, ma poi ci ho messo del mio. Non è stato un buon padre: è stato un grande attore, ma non è stato un buon padre. Se avessi dei figli cercherei di dare loro dei valori diversi”.

Ma lui il valore del lavoro, del successo e della creatività glieli dimostrava concretamente…

“Lui ha sempre pensato che una persona è al top oppure non vale niente. Ne è convinto, lo ha teorizzato nel personaggio di Fantozzi. Ma è un falso obiettivo, anche perché di persone di successo ce ne sono poche e non sono felici solo quelli che hanno successo. Questo purtroppo crea una frustrazione perché se non raggiungi il successo sei uno sfigato”.

Quando hanno chiesto a suo padre se avesse mai pianto lui ha risposto “una volta sola, quando è nato mio figlio Piero”.

“L’ho letto. Chiaramente non lo posso testimoniare … ma mi ha fatto molto piacere. Lui non fa trasparire i sentimenti, mai. Io adoro mio padre e sono sicuro che lui mi vuole bene, ma io sono stato un ostacolo alla sua felicità in quel momento quando aveva tutto, il denaro il successo la popolarità. Mio padre, come tutti quelli che fanno quel mestiere sono estremamente egocentrici, egoisti, pensano molto a se stessi. Lui era al top e pensava solo alla sua carriera. E l’ha dichiarato: “io ho lasciato perdere la mia famiglia per badare al mio lavoro”. Io al momento l’ho vissuto come un abbandono, ma mi sono accorto solo dopo del danno che mi aveva fatto rimanere da solo. Anche cercando di supplire sempre all’assenza con il denaro, con i regali. Quando ha scoperto che io, bambino, facevo la raccolta di figurine mi ha portato da un grande giornalaio dei Parioli e, pensando di farmi felice, mi ha comprato tutte le figurine che aveva. Io sapevo di aver finito in un attimo l’album. Ed era finito anche il gioco. Ma uno si deve guadagnare le cose, se non te le guadagni non ne capisci il valore, se è tutto così facile non desideri più niente. Quando mi sono laureato, dopo essere uscito dalla droga, mi ha fatto trovare in garage un fuoristrada meraviglioso, 5.900 di cilindrata, un sogno, che faceva tre chilometri con un litro. Non avrei mai potuto mantenerlo, ma per lui era un modo di manifestare il suo affetto. Ha un grandissimo affetto per me, come io ho un grande affetto per lui, ma non abbiamo mai trovato il modo di comunicarcelo”.

Dopo qualche spinello lei inizia a drogarsi a 17 anni, quando un amico le fa provare l’eroina. Ma si ripete quasi come un mantra: “Smetto quando voglio”.

“Non è vero, come credevo allora, che si smette quando si vuole. Quando si è drogati si ha la capacità di intendere ma non quella di volere. Io mi sono reso conto di essere dipendente un giorno quando non stavo bene e credevo di avere l’influenza e un mio amico, già tossico, quasi ridendo mi ha detto che era una crisi di astinenza. Col passare delle ore la crisi è peggiorata e con una dose è passato tutto. Allora mi sono reso conto. Credi di poter smettere quando vuoi ma dopo un po’ raggiungi la consapevolezza che non è così: agli altri si può dire ciò che si vuole ma sai che non è così. Quello in cui credo di essere stato bravo è stato non scappare da San Patrignano, dove la vita non era facile; ma sono rimasto. Ero veramente stanco. E mi ero reso conto che essere tossicodipendente e figlio di Paolo Villaggio in Italia era una cosa, essere un tossicodipendente e un Villaggio a Los Angeles un altro”.

Perchè a un certo punto i suoi, per cercare di farle cambiare aria e abitudini la mandano a Los Angeles, dove sua sorella si era sposata. E lì scopre…

“Fra tossici c’è una certa antenna e io come ho visto il marito di mia sorella ho capito che c’era qualcosa che non andava; lui era stato tossico in passato e ogni tanto ne faceva ancora uso. Il mio egoismo ha fatto sì che, pur scoprendolo, non ho detto niente; non potevo denunciarlo a mia sorella perché avrei dovuto denunciare me stesso. Ancora oggi mi sento in colpa per non avergliene parlato. Così come mi sento in colpa per la morte della mia ragazza, Beatrice” .

Che ha trovato la mattina del 31 agosto 1983 nella vostra casa di Porto Rotondo in Sardegna, uccisa da un’overdose.

“Anche se non direttamente, mi sono sentito responsabile di aver portato la droga in casa. Era come dare una pistola in mano a un bambino. Lei non era una tossica, ne usava ogni tanto. E aver trovato lì della cosa così pura è stato fatale. Nel giro della settimana successiva ho avuto tre o quattro overdose anche io. Penso che inconsciamente cercassi di uccidermi”.

A Los Angeles, quando i suoi smettono di finanziarla, finisce in un vero inferno: truffe, furti d’auto, rapine, in complicità con uno spacciatore, Body Washington, che prima la sfrutta poi, in qualche modo, la salva.

“Io sapevo dove erano le armi e di solito, se servivano, le portavo io perché i bianchi li fermano molto meno dei neri. Un giorno decido di uscire da solo dopo essermi infilato una pistola alla cintola. Uscendo incontro Body e lui, quasi come un padre, mi dice: “Io non so come funziona da voi in Italia, ma qui se porti una pistola devi sparare perché se no ti sparano. E tu non ne sei capace, al massimo ti spari in un piede. Questo non è il tuo mondo, torna in Europa, se no tu qui finisci male”. Evidentemente Dio in quel momento non faceva altro che badare a me perché con tutte quelle cazzate che ho fatto mi è sempre andata bene”.

Mentre di solito si finisce male: la conta di quelli che stavano con lei a San Patrignano è drammatica.

Dei dieci che erano in stanza con me due sono guariti, uno mezzo sì e mezzo no; gli altri sono morti”.

A San Patrignano c’è l’ultimo abbandono, ma, questa volta, positivo.

“Prima mio padre mi aveva mandato in una clinica svizzera, a cinque stelle, credo che in tre mesi abbia speso 200 milioni degli anni ’80. C’era tutta gente ricchissima e uscivamo e ci facevamo di tutto. Non serviva a niente. Poi, un giorno, mi hanno accompagnato e lasciato a San Patrignano perché ha capito che era l’unico modo di aiutarmi. Io ero stanco fisicamente e psicologicamente, non avevo passaporto né soldi, e ho pensato sto qui per un po’ poi scappo. Per fortuna sono rimasto. Lì per lì ero avvelenato. Invece probabilmente è stata la mia salvezza. Poi stando lì mi sono cominciato ad accorgere di tante cose che non potevo accettare”.

Racconta di essere stato picchiato da Muccioli, che le ha rotto un timpano e delle costole.

Sì. Ma sono anche dell’opinione che uno schiaffo o due, se serve, ci sta. Ma chiudere una persona in una botte per giorni non credo che sia giusto. E ci sono state delle persone ammazzate di botte. Io non capivo come mai Muccioli affidava persone in grande difficoltà a qualcuno che non era in grado di occuparsi nemmeno di un cucciolo”.

Muccioli è anche quello che le ha affidato l’orto, che l’ha convinta a tornare a studiare.

“Sì. E mi ha aperto un mondo. Sono tornato a studiare ed è come se per la prima volta funzionassi, io che non ho mai funzionato in niente. Ho preso il diploma, sono andato all’università. Agli esami prendevo trenta”.

Genetica l’intelligenza così come le fragilità…

“Io porto il nome del fratello gemello di mio padre, Piero, un matematico, che era un genio di cose incomprensibili, aveva cattedre in Italia e in America. Niente di più diverso da mio padre. Mio padre è un bulimico, Piero non mangiava mai”.

Ha letto a suo padre che stava scrivendo questo libro?

“Si. E lui ha cominciato a volermi dare dei consigli, presentarmi delle persone. Ma io gli ho detto: questa è una cosa che deve rimanere mia. Mentre lui tende a fare sua anche questa.”

Non poteva essere una offerta di aiuto da parte di uno che è un autore di bestseller?

“Lui comunque pensa a se stesso. Come sempre”.

E quando lo ha finito?

“Glielo ho fatto leggere e lui mi ha detto “è un bel libro””.

E’ un bel complimento da uno che è entrato nella storia della comicità nei libri e nel cinema.

“Sì”.