Da giornalista, ora in pensione ma praticante, conosco bene i vantaggi e i limiti dello smart working: di fatto lo faccio, questo lavoro agile (ma perché la traduzione è agile?) fra articoli e blog, da quando non vado più in redazione regolarmente. Regolarmente, appunto: però andavo almeno una volta alla settimana per proporre articoli, chiacchierare, salutare gli amici con cui ho lavorato per tanti anni e con cui ho comunque un ottimo rapporto. Una buona soluzione per non perdere tempo in trasferimenti, lavorare quando le idee saltano in testa, avere del tempo libero per una lezione di yoga, un film, una mostra. Perfetto? Certo, ma non in tempo di coronavirus: perché il lavoro intelligente, se fatto con i bambin iim casa, a scuole chiuse, funziona solo se i suddetti bambini vengono imbavagliati, legati e ridotti a immobilità e silenzio in qualche altra fantasiosa maniera. Oppure coinvolti, come Andrea, il più tecnologico dei gemelli, a imparare a digitare lettere sulla tastiera, familiarizzando con l’alfabeto e il computer. Per farlo, però, bisogna cedere il computer con sui si sta lavorando ai gemelli, oppure avere un numero n di computer in modo che ciascuno, marito, moglie, nonno e nonna, gemello uno e gemello due ne abbiano uno a testa. Abbastanza inverosimile per qualunque famiglia. Comunque, ad asilo chiuso (scusate, scuola dell’infanzia, se no i twins mi sgridano di brutto), chiusi in casa anche il computer è una risorsa per imparare insieme. Battendo le letterine, magari colorandole, giocandoci un po’, senza insistere troppo quando si stufano. Buona sopravvivenza!
ma questo working è davvero smart?
a cura di ELENA MORA