le “crostolette” della zia angioletta

Tutti i bambini di tutti i tempi, da che il piatto è conosciuto, vanno pazzi per le cotolette. Talmente buone e croccanti, con quella loro crosticina dorata, che in casa le chiamiamo le “crostolette”. Mitiche quelle cucinate dalla zia Angioletta: delle tre sorelle lei era l’unica ad aver ereditato il considerevole talento culinario della nonna, andato invece quasi perso nell’altra figlia e di cui non v’era traccia alcuna, nemmeno omeopatica, in mia madre; persona, va detto, piena di talenti, tranne quello della cucina. La zia Angioletta sosteneva (e non a torto) che la riuscita di un piatto dipende sostanzialmente dagli ingredienti, che devono essere sopraffini: quindi una buona cotoletta nasceva da belle fette di fesa di vitella, a cui erano stati accuratamente puliti i bordi di ogni pellicina, per evitare che si arricciassero durante la cottura, passate prima leggermente nella farina in modo che ne restasse solo un velo, sufficiente a non permettere alla panatura di aderire direttamente alla carne. Poi andavano passate nell’uovo ben sbattuto, con un pizzico di sale appena, con santa pazienza, in modo che la carne se ne impregnasse ben bene (alcune antiche ricette dicono che la carne va lasciata a mollo nell’uovo sbattuto per qualche ora); infine ben rivestite con il pangrattato. Pane grattugiato rigorosamente al momento e poi passato a un colino fine fine, in modo che il risultato fosse una farina a grani piccoli come una semola. Il pangrattato doveva aderire bene all’uovo, e per questo veniva ben schiacciato con le mani da una parte e dall’altra della cotoletta, facendo attenzione a coprire ogni angolo della superficie. Infine, si preparava una pentola bella larga in cui veniva sciolto in abbondanza burro di ottima qualità: quando la zia non potè più disporre di quello della nonna – o di quello che qualche paziente del marito medico regalava come saldo di una visita che diversamente non avrebbero potuto pagare – attingeva in abbondanza dalla latta gialla del burro Soresina, che ancora oggi, in suo ricordo, in casa non manca mai. Appena il burro cominciava a schiumare, friggeva con grande cura le cotolette, a due o tre per volta, senza mai abbandonare i fornelli. Poche per volta per non abbassare troppo la temperatura del burro, che avrebbe inesorabilmente danneggiato il risultato, e per poterle “curare” bene. Andavano, infatti, girate con sapiente tempismo una volta sola, quando, grazie all’esperienza, sapeva che un lato si era già ben dorato; non andavano assolutamente bucate con la forchetta per girarle, ma spostate con forchetta e cucchiaio in modo da non rovinare la crosticina croccante né far uscire gli umori della carne chiusa nella panatura; infine, tenute sul fuoco dall’altro lato per formare la stessa crosticina dorata, che grazie al velo di farina si sollevava in qualche punto dalla carne creando delle bolle croccanti che resistevano a lungo senza disfarsi e davano al piatto un aspetto sontuoso e appetitoso. Le due/tre cotolette pronte venivano tenute in un piatto al caldo, mentre le altre seguivano la stessa sorte. Di tanto in tanto aggiungeva qualche ricciolo di burro fresco per sostituire quello assorbito dalle cotolette. Sì, lo so, questa non è una ricetta vera e propria: ma perché, malgrado le istruzioni fossero chiare e io la avessi vista cucinarle, a me non vengono mai come le sue. Sì, buone, appetitose, ma mai come quelle. Quindi quello che non so fare bene non so insegnare. Provate un po’ voi, magari vi riescono meglio…