Tornano a fiorire le camelie, nella loro assoluta, simmetrica perfezione, riaffiorano ricordi di un anno fa. Di un anno vissuto pericolosamente, in una realtà parallela a quella abituale. E ritrovo un racconto che rileggo per capire che cosa è successo al mondo – e a me.
Fase 1: negazione
Una amica mi dice: “per il virus chiuderanno Milano”. Esilarante. Come potrebbero mai chiudere Milano? Con l’esercito? Scuoto la testa, rido della fake news, ma da qualche parte del mio inconscio sono scossa. Non può succedere, è ovvio. La mia Milano chiusa? Non scherziamo! Però, partendo per il fine settimana al lago con i nipotini, prendo il computer. E, per scaramanzia – il “non è vero ma ci credo” – anche cavi e caricatori di tutto: telefono, ipad, smartwatch. In fin dei conti, che ci vuole? Li carico in auto, li riporterò indietro intatti, come tante volte (praticamente tutte) in cui ho pensato di lavorare.
Si dice che quando si perde qualcuno a cui si voleva molto bene si attraversano delle fasi, cinque, uguali per tutti, e che la prima è la negazione. Ci si dice che non può succedere, non può essere successo. Il passaggio da “è solo una banale influenza” alla pandemia per me è stato proprio questo, la prima reazione a un lutto: incredulità, voglia di mettere in ridicolo il pericolo, esorcizzare la paura con l’ironia. “It’s a flu” dico alla amica americana che sta decidendo se venire in Italia. Una banale influenza. In palese contraddizione con il computer e il caricatuttononsisamai, infilo come sempre il ricambio di fuseaux, una maglietta e un pile (magari avessi fatto una valigia!), ovvero la mia abituale divisa nel fine settimana, e vado serenamente a fare la mia ultima (ma in quel momento non lo so) spesa al supermercato. Una bella spesa perché di solito, qui al lago, ci sono figlia genero e nipotini e sempre qualcun altro – mio fratello, i consuoceri, qualche amico – che passa a mangiare un boccone. Rido al telefono con le cugine della ipotesi della chiusura di Milano sino a quando sbuca, da fonte anonima, la notizia della chiusura della Lombardia. Smetto di ridere. Ancora incredula, cerco di capire. Nel frattempo, consiglio a mia figlia di fare quello che io non ho pensato di fare: di portarsi qui (lei abita a un quarto d’ora di distanza) cambi e abiti per restare. Nel caso che. Nel caso. Il resto, è una conferenza stampa nella notte che annuncia la chiusura di Lombardia e Piemonte. Siamo dove siamo.
Fase 2: paura
Siamo chiusi in casa, soli. Cioè soli come lo si è quando si convive in quattro adulti e due gemelli di quasi 4 anni. A cui cerchiamo di spiegare che stiamo tutti qui perché c’è il “birus”: Anna parla benissimo per la sua età, ma il coronavirus è inesorabilmente, il birus. Monello, questo birus, perché non li fa andare alla scuola dell’infanzia (guai a dire asilo, per favore!). Li separa dagli amichetti, dalle maestre, dalla routine quotidiana. I dati scandiscono inesorabili ogni giorno gli ammalati, i morti, i ricoveri. La primavera, intanto, esplode in tutto il suo splendore, quasi che la natura volesse ostentare la sua capacità di vivere e sopravvivere bene o addirittura meglio senza di noi. Un sole implacabile nel cielo sereno scandisce le giornate mentre io cerco disperatamente del cibo. Curiosamente, non mi fa paura la malattia, il contagio, ma la fame. L’idea che possiamo soffrire la fame. Uova, salumi, formaggi, pasta, riso: tutto quello che viene consegnato a casa ordino. Stivo. Cucino. Cucinare è il mio modo di rilassarmi da sempre, ma anche il mio modo di dimostrare amore, affetto, attenzione. Non riesco a leggere, passatempo assoluto della mia vita: ora dopo tre pagine torno indietro perché non ho capito una sola parola. Sullo schermo si rincorrono cifre e notizie drammatiche, in cortile i bambini si rincorrono scoprendo foglie e fiori. “Restiamo qui perché c’è il birus monello vero nonna? Poi tu torni a Milano a riposarti?”. Già. Il nonno torna a Milano a lavorare, io torno a Milano a riposarmi. Per ora, però, non torniamo. Per due settimane, tre, quattro, cinque, come nella canzoncina del piccolo naviglio che dopo una due tre quattro cinque sei sette settimane… ma il piccolo naviglio finalmente finalmente navigò. Noi siamo qui, incagliati.
Fase 3: patteggiamento
Ok. C’è la pandemia, MA. MA sono con le persone che amo. MA siamo in una casa con il giardino (fattore da non sottovalutare con due gemelli di quasi quattro anni). MA abbiamo da mangiare: e ci credo, con tutta la spesa che ho fatto potremmo sopravvivere anche a una catastrofe atomica. Il problema è che questo ci somiglia parecchio, a uno scenario post atomico. Nel film di genere noi saremmo la famiglia che vive felice nella fattoria, felicemente all’oscuro di quanto sta succedendo, e da cui parte l’eroe che salverà il mondo dalla catastrofe. Peccato che non ci sia alcun eroe fra noi, e la cosa più eroica è il mio muovermi una volta alla settimana la piccola spesa e la spedizione di mio genero al supermercato ogni dieci giorni. Attraverso il paesino deserto – duecento anime – passando davanti ad eleganti portoni di ville del seicento: ironia della sorte, costruite quando la gente fuggiva da Milano e dalla peste, quella classica, nera, visibile. Indosso la mascherina che appanna gli occhiali, quindi non vedo la merce del negozio, ma se tolgo gli occhiali non vedo la merce del negozio. Alternativa siberiana: se in Siberia di cade in acqua in inverno si ha la scelta se uscire, e morire in trenta secondi, e restare in acqua e morire immediatamente.
Fase 4: depressione
Due mesi. Due mesi di incertezza, di noia, di allarmi, di notizie contradditorie. Due mesi con gli stessi fuseaux, lavati e indossati, lavati e indossati, ora bucati. Ridicolo, vero, lamentarsi di questo?
Ma ovviamente non sono i vestiti quello che mi manca. Mi mancano le mie amiche, la mia città, la mia casa. Le mie abitudini, le mie certezze. La mia vita. Quella che credevo di avere garantita.
Economicamente, ma non solo. Per qualche settimana avrei voluto gridare, ora mugolo. Piagnucolo. Non vedo la fine. O, se la vedo, ciò che vedo non mi piace nemmeno un po’. Ne usciremo? Non lo so. Non lo so più.
Fase 5: accettazione
Mi alzo, bevo il primo caffè. I gemelli si alzano, fanno colazione – cerco sempre di preparare qualcosa di speciale. Aggiorno il mio blog www.unamoredinonna.it. Nella mia incapacità di concentrarmi troppo a lungo scrivere qui, mantenere un rapporto con chi mi legge è un modo per sopravvivere, un piccolo successo di cui vado orgogliosa. Faccio le lavatrici, stendo, ritiro i panni. Scendo in giardino. Controllo la rucola che ho seminato, raccolgo prezzemolo, rosmarino, salvia. C’è una poesia di Montale che della moglie dice “ascoltare era il tuo solo modo di vedere”. Cucinare è il mio solo modo di amare. Organizzo il pranzo e la cena, ordino il latte, la carne, salumi e formaggi. Organizzo la settimana. Pranziamo, facciamo la merenda, ceniamo. I bambini giocano in giardino, i ragazzi fanno ginnastica. Telefono alle amiche. Mi trucco – qualche volta – ma spesso la pigrizia ha il sopravvento. Vivo da mesi un eterno fine settimana, in cui la domenica sera non arriva mai. Una vita tranquilla, a suo modo bella. Anche se io rivorrei tanto la mia. Amo mio marito, mia figlia, i miei nipoti. Ma amavo anche, tanto, la mia vita.
A distanza di dodici mesi la mia vita, quella di tutti, non è tornata. Nè sappiamo quando tornerà. Draghi ha detto, e condivido, che non sarà come riaccendere la luce dopo un black out. Sarà diverso. Per certo non siamo migliori, come si diceva all’inizio della pandemia, in un coro di vogliamoci bene andrà tutto bene, ne usciremo migliori. Non ci ho mai creduto.Saremo diversi, appena potremo capire come. Ma siamo qui, ed è molto.