Il tram numero 1 e il mio amore per Milano

Le sei di mattina. Ho sei anni. E’ il 1960. Sto aspettando una corriera. L’aria è frescolina, è settembre e io ho molto sonno. Sto andando a Milano. Ancora non lo so, ma questo viaggio segnerà la mia vita. Tutta la mia vita. Grazie a un tram perso, al melone, a una quasi zia.

Sono nata in una cittadina in Piemonte nello stesso anno in cui, a Torino, nasceva la televisione. Io, però, sono venuta al mondo in una sorta di paesone tranquillo, chiusa fra due zone molto attive. Vicina ai laghi dove si producevano, grazie anche all’acqua ferma, pentole pubblicizzate con una indimenticabile linea (Lallala-Lagostina), le caffettiere dell’omino coi baffi (Bialetti), oggetti di raffinato design (Alessi) e rubinetti di ogni tipo esportati in tutto il mondo. Poco lontano, l’acqua mossa dei fiumi aveva favorito la produzione di filati anche molto importanti, amati da ricchi e raffinati clienti (Loro Piana, Agnona, per dire). Insomma, fra gente attiva, creativa, oculata (termine carino per dire piuttosto risparmiosa, al limite di taccagna), sempre molto low profile. Da noi non si parla di soldi, non ci si vanta di successi, non si mostra ciò che si compra, non ci si pavoneggia. Ma, comunque, una cittadina a misura d’uomo, come si dice, strade da girare in bicicletta, dove l’evento è il mercato del venerdì. Da lì, una volta al giorno, tranne il sabato e la domenica, alle sei di mattina partiva il pullman dei pendolari che lavoravano a Milano. Da lì, bambina, sono partita un mattino con mia mamma per la metropoli: una vera avventura per andare a trovare una sua amica che abitava e lavorava lì, e che era a lei così cara che avevo il permesso di chiamarla zia (le altre amiche erano signorina Ada, dottoressa Borgna, e così via). La sveglia all’alba, l’attesa sotto il portico del bar alla stazione delle corriere: di spendere per un caffè non se ne parla neppure, e poi si rischia di perdere la corriera. L’emozione del viaggio, l’arrivo in piazza Castello: un grande, vero castello! Il pranzo, da frugali piemontesi, era a casa degli zii acquisiti. Casa che, ovviamente, non era in centro città, ma in un viale, rumoroso e trafficato, le finestre della casa affacciate sulla sopraelevata. Prendere un taxi non è una opzione – all’epoca io ne ignoro persino la esistenza, mia madre ignora la possibilità di prenderlo per l’oculatezza di cui sopra – quindi dobbiamo prendere una altra corriera.
Una corriera, questa, un po’ strana, una via di mezzo fra un pullman e un treno, senza ruote e appesa in alto a un filo elettrico in alto. Dalla corriera (quella vera) a questa nuova (che scoprirò poi essere un tram) sono pochi passi, e quando ci giriamo la vediamo arrivare. Un semaforo rosso ci separa da lei… ma prima che possiamo raggiungerla è partita, sferragliando sulle rotaie. A me, bambina, vengono le lacrime: come faremo ad andare a mangiare dagli zii? Dovremo aspettare fino a domani per la prossima corriera milanese? Il viaggio è stato lungo (un’ora e poco più, ma parecchio per una abituata agli spostamenti in bici, tranne quello, epocale, per il trasferimento al mare con la Seicento) sono eccitata, stanca e affamata. E in quel momento avviene la folgorazione, quella che deciderà della mia sorte.

Al mio “Come facciamo adesso?”, tono petulante da bimba in overdose di emozioni, la zia risponde tranquilla: “I tram sono come gli uomini. Se ne perdi uno, ce n’è subito un altro”. Prima che io possa capire la battuta, e intercettare lo sguardo fra il divertito e lo scandalizzato di mia mamma, ecco arrivare sferragliante un altro tram. Ed è stato lì, a sei anni, in Foro Bonaparte, seduta sulle panche di legno dell’Uno, tram che amo ancora adesso, e con cui ho un debito di decisa riconoscenza, che ho deciso che sarei venuta a vivere in questa città, dove le corriere non passavano una volta al giorno, ma ogni volta che uno ne aveva bisogno.

Qui, nella città dove ho poi vissuto per cinquant’anni, ho assaggiato per la prima volta il prosciutto crudo con il melone (lusso sfrenato per le mie ridotte conoscenze di gastronomia), qui ho vissuto la avventura delle scale mobili della Rinascente: e da ogni parte merci e colori che mi hanno fatto girare la testa – e che me la fanno girare tutt’ora. Qui mi sono laureata, ho fatto un corso di teatro in quel palazzo meraviglioso che è chiamato le stelline – da casa delle orfanelle a centro congressi elegante e raffinato. Qui, nella pace del chiostro di Santa Maria delle Grazie, davanti alle piccole rane che da secoli sputano acqua sui nostri destini, ho imparato a prendere le distanze dai problemi: appoggiandoli idealmente su una mano poi, con un movimento di telecamera all’indietro, come nei titoli di coda dei film, allontanarmi nel tempo. Quanto mi avrebbe fatto piangere, o preoccupare, quel problema a distanza di un mese, di un anno, di un decennio? Il movimento di camera non è casuale: a Milano Due sono esposte, nelle teche, le telecamere con cui lavoravamo agli inizi degli anni Ottanta, dove sono nate le tv commerciali – per un breve periodo chiamate libere. Comunque uno la pensi, una straordinaria avventura professionale in cui ho lavorato con giganti del giornalismo come Giorgio Bocca, Guglielmo Zucconi.
La Milano ricostruita nella fiction di Sky dedicata a quegli anni. E credetemi, vedere esposta in una teca un oggetto con cui avete lavorato, rivedere in una fiction tv gli avvenimenti a cui avete partecipato dà una certa sensazione di appartenere al passato…

Un altro luogo che mi dà un senso di pace è la basilica di Sant’Ambrogio, a due passi dai chiostri del Bramante della mia Università, la Cattolica. E in una ideale passeggiata porterei gli amici a visitare San Maurizio, una piccola Cappella Sistina in corso Magenta, per poi farli sorridere davanti alla scultura di Cattelan, un dito medio levato verso il cielo a dileggiare l’austero palazzo della Borsa.

Non ho mai amato, invece, il Duomo: l’interno della cattedrale non mi piace un gran che. Freddo, alto, diventa per me affascinante solo quando tra le colonne vengono esposti i giganteschi arazzi, nelle grandi occasioni. L’esterno, però, è tutt’altra faccenda. Quando il cielo è azzurro, e le guglie si elevano verso il cielo come un pizzo a contornare la Madonnina tutta d’oro, non riesco a non commuovermi. Una chiesa che celebra, in qualche modo, l’operosità milanese, come a dimostrare e ripetere attraverso i secoli che con il duro lavoro si arriva a toccare il cielo. Se non con un dito, con una guglia di marmo candido. Beh, candido ora, che lo tengono bello pulito…

Già perché l’altro ricordo che ho di Milano, da bambina prima e da ragazzina dopo, è in bianco e nero: il nero dello smog, quella patina scura e unta che copriva tutto, dal Duomo alle auto parcheggiate, e il bianco della nebbia, che veramente cancellava tutto il mondo intorno, creando una indimenticabile magia. Inquinamento e nebbia scomparsi negli ultimi anni, almeno in quel modo così plateale, mentre la città si ripuliva per l’Expo, si agghindava per i turisti, alzava nel blu le guglie dei grattacieli a rivaleggiare con quelle del Duomo. Ma la vera Milano non sta nei monumenti, nelle vie eleganti, nei negozi dello shopping da super ricchi: la vera Milano sta nelle persone che ci vivono (sono poche ormai quelle che ci sono nate davvero), magari un po’milanese imbruttito, un po’ bauscia e sbruffoni, ma generosi, accoglienti e attenti alla cultura.
La Milano delle mostre e dei cinema, del design e della moda. La Milano europea, viva e vitale. La Milano silenziata dal virus. Paralizzata dalla paura. Ferita nella sua anima più speciale: gli incontri, gli scambi, i confronti. La città che dovremo ricostruire sulle rovine lasciate dal coronavirus. Ma – attenzione! – mai sottovalutare una città dalle magiche corriere…

Il racconto è inserito nella raccolta Lettera d’amore a Milano edizioni Bookabook