Il mio regalo della befana: un racconto “la chiave di tutto”

Sono ferma, davanti a una porta. Non voglio entrare, non posso non farlo. Sono passati due mesi da quando mia mamma è mancata. Ma perché ci ostiniamo a dire così? E’ morta, morta, morta. Non è scomparsa, non ci ha lasciato, non è passata a una qualsiasi vita migliore. Odio le metafore quasi quanto odio l’idea di entrare in questa casa e ritrovare quello che lei, sì, ci ha lasciato. Nemmeno presto, in realtà: stava per compiere 100 anni, sicuramente un bel traguardo. Tanta vita, forse troppa. Tante, troppe le cose che mi aspettano in queste stanze. Dove, come avrete capito, non ho nessuna voglia di entrare. Mi forzo, giro la chiave, spingo la porta. Ragni puntigliosi hanno decorato mobili e muri. La polvere silenziosa si è posata ovunque, su tavoli e ricordi, cuscini e parole. L’odore è quello di sempre, quello di casa. Mi aspetto di vederla arrivare, dal corridoio, tanto felice di vedermi da farmi vergognare della mia assenza. Mi fermo, respiro a fondo e apro le finestre, spalanco le persiane. Ho bisogno di aria, di luce. Vado nel ripostiglio a prendere i sacchetti della spazzatura – ne aveva centinaia – e mi fermo davanti al grembiule appeso al piolo nel muri. Un grembiule intero, azzurrino, che metteva per fare le pulizie. La prima cosa a finire nel sacco nero di plastica, seguito dalle ciabatte, quelle per casa e per il giardino, al piumino da polvere. Via la sua mania di ordine e pulizia, che sicuramente non ho ereditato. Sorrido pensando a quanto la prendevo in giro perché prima di invitare qualcuno a pranzo o a cena riordinava i cassetti della sua camera da letto. Parto proprio da lì, dal primo cassetto: cappellini e fiocchi da chignon, di raso e velluto, finiscono nel sacco nero, seguiti da minuscole borsette ricamate di perline. Già, per ogni matrimonio che si rispettasse, negli anni cinquanta, serviva un cappellino in perfetta nuance con l’abito e quella che ancora non si chiamava pochette da stringere in una mano possibilmente guantata. Infatti di lato ci sono anche loro, i guanti. Bianchi, neri, blu, di pizzo, di pelle. Scendo e apro il cassetto della biancheria. Reggiseni a punta e mutande (non slip, proprio mutande) di cotone; sottovesti con bordi di pizzo. Le sottovesti! Credo che ormai la regina Elisabetta sia l’unica a indossarne ancora. Scatole di camicie da notte “per quando dovessi andare in ospedale”. Sopra quelle della L, sotto M e più in basso quelle piccole, ancora taglia 42, 40, prezzi in lire, ridicoli, scritti a mano in quella che sembra una bella calligrafia. Quanto mi aveva sgridato, lei maestra, per la mia scrittura poco ordinata! Il terzo cassetto è quello dei foulard. Decine di quadrati di seta, gli ultimi, i regali dei compleanni, ancora fasciati di veline e piegati nelle scatole dalle firme prestigiose. Cerco di prenderli senza sciuparli, ma non riesco a toccarli. Non so perché ma non ce la faccio proprio. Forse perchè hanno il suo profumo, forse perché li vedo ancora intorno al suo collo, in testa a proteggere lo chignon in puro stile Grace Kelly, compresi gli occhiali da sole leggermente all’insù, montatura da gatto, immancabile rossetto. Raccolgo la seta multicolore senza guardare e la caccio a forza in un sacco nero. Mi sento improvvisamente stanchissima. Torno in soggiorno – versione anni settanta della sala anni cinquanta, con il vantaggio che ci si poteva soggiornare – e mi accascio su una poltrona. La sua poltrona. Nella pelle, ammorbidita dagli anni, il cuscino mi accoglie con la sua forma. Raccolgo le gambe acciambellandomi come un gatto, come faceva lei. Io mi sedevo lì sotto, sul tappeto, davanti alla televisione. Sissi e via col vento le nostre passioni. Lontana, le telefonavo quando sapevo che complice agosto, li rimettevano in onda. “Guarda che questa sera c’è Sissi!”. Ancora adesso sono vittima del fascino della principessa triste, guardo i film datati, dai colori sbiaditi, anche se so tutte le battute, una per una. Scivolo dalla poltrona sul tappeto, decisamente più polveroso di quando c’era lei, armata di aspirapolvere dalla marca prestigiosa. Che ne farò di tutta questa roba? Dei candelieri, delle posate, dei bicchieri, delle tovaglie, delle pezze di stoffa, delle scatole di bottoni di tutti i colori e dimensioni conservati perché “non si sa mai”. Che cosa vorrò tenere per me? Le mie case sono piccole e già piene di cose, non c’è nulla che mi possa servire. Appoggio la testa sconsolata sul sedile. Guardo i ripiani, fitti di soprammobili. Le tende, sporche e in qualche punto a brandelli. Dovrò prendere la scala e toglierle se voglio presentare bene la casa per poterla vendere. Ma non ho la energia per scendere nel box e portare su la pesante scala pieghevole. Chiudo gli occhi per non vedere questa casa diventata un guscio vuoto, anzi, troppo pieno. Chiudo gli occhi e sento una mano leggera sui miei capelli. La sua mano. La sua voce, un sussurro: “spoulatrin”. Non ho mai saputo nemmeno che cosa volesse dire quella parola, forse uccellino piumato, forse pulcino. Non che avesse importanza. La carezza. Quella sì sarebbe l’unica cosa che porterei via volentieri da questa casa, che vorrei portare sempre con me. Quella carezza appena accennata, unico gesto di affetto da piemontese d’antan che mi rimproverava di averle presentato amiche che salutavano – orrore! – con un doppio bacio sulle guance. Una carezza fatta al buio, alle mie spalle, quasi di nascosto. Piango. E ripenso dalla ultima volta che l’ho vista, quando il medico le ha chiesto se sapevo chi ero. “Non mi ricordo il suo nome”, ha risposto. “Ma so che ci siamo volute tanto bene”.