Come scoprire (e gestire) un cattivo capo…

Che sia un lui o una lei non ha importanza: un cattivo capo è, in ogni caso, un cattivo capo. Riesce a rovinare le nostre giornate, cambiare il nostro umore, inquinare il luogo di lavoro, a volte anche mettere a rischio il nostro equilibrio. Come riconoscerlo e come difendersi?
Domitilla Ferrari, esperta di marketing, docente dicomunicazione digitale alla Università di Padova, sul tema ha scritto addirittura un intero libro, Il cattivo capo, pubblicato da Longanesi.


Non s
i lascia una azienda ma un capo

A lei, che nella sua esperienza, racconta, ha cambiato decine di superiori prima di diventarlo lei stessa, abbiamo chiesto quale è il boss in testa alle classifiche negative.“Il capo peggiore di tutti, secondo me, è quello che non condivide, che fa fare le cose senza spiegare perché” spiega. Non che sia peggiore del capo che non delega o di quello maleducato, anche perché spesso queste caratteristiche si accumulano: ma il capo accentratore, che non comunica, non passa le informazioni, non fa crescere le persone e, quindi, è un pessimo capo anche dal punto di vista aziendale”. Nel libro lei dice che quando ci si licenzia non si lascia una azienda ma un capo. “Lo dicono le statistiche: la maggior parte delle volte basta cambiare di settore, reparto o redazione e il problema della persona che vuole andare via si risolve. Perché chi va via non è che cambia impegno o impiego: va a fare lo stesso lavoro, ma con un capo diverso. O, almeno, così spera.

Lavoro intelligente, capi stupidi

La pandemia ci ha anche messi di fronte a una riflessione sulla nostra vita e sul nostro lavoro, e a volte ci ha portato a decisioni drastiche: ma, nel quotidiano, ha anche cambiato il nostro modo di lavorare; e lo smart working totale o parziale,ovviamente, ha inciso anche sui rapporti fra superiore e dipendente. “In alcuni casi, spiega la Ferrari, lo smart working ha peggiorato le cose: perché anche i capi sono usciti dalla loro comfort zone, dalle rassicuranti, protettive routine di comportamento fatte di presenzialismo e di controllo; da remoto è mancato innanzitutto il controllo visivo che ogni capo, da sempre, ha imparato dal suo capo. In molti sono andati in crisi: e quando va in crisi anche un buon capo può diventare pessimo. In qualche caso, invece, è migliorato, perché alcuni capi hanno studiato, hanno imparato, preso del tempo e hanno capito che trovarsi tutti in un luogo fisico spesso non serve, né il controllo continuo e costante, ma sono casi rari… D’altra parte se un capo è un capo è vincente, quindi perché dovrebbe cambiare?”.

Come reagire (senza fuggire) a un pessimo capo?

Già, ma quando si ha a che fare un pessimo capo, come si può reagire? Come ci si può difendere? Io consiglio di imparare dagli attori a teatro: loro apprendono a non guardare il pubblico e comportarsi creando una barriera, una quarta parete; noi dovremo creare uno schermo fra noi e la nostra emotività che, sul lavoro, non vienerichiesta, non è utile. Questo non significa che se mi viene da piangere non piango o se mi sento di arrabbiarmi non mi sfogo: ma è importante mettere dei paletti, della distanza. Ho avuto un collega che si lamentava dei problemi lavoro soffrendoli come se fosse un problema famigliare. Ecco, quel tipo di coinvolgimento non aiuta a vedere le cose in maniera oggettiva né tantomeno a capire se c’è un margine di miglioramento per la nostra condizione di lavoro. Quello che possiamo modificare è il nostro atteggiamento nei confronti del capo, del lavoro. Il capo, se sta lì, vuol dire che all’azienda va bene così e il nostro margine di azione su di lui è minimo”.

L’abito non fa il monaco… ma il capo sì

Uno degli aspetti importanti è quindi come ci si pone: anche dal punto di vista di come ci si presenta al lavoro. “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”, diceva il grande Oscar Wilde: ma il nostro abbigliamento può in qualche modo modificare il rapporto sul lavoro? “Vestirsi significa anche presentarsi in un certo modo; serve a far capire se si è lì e si è sicuri del proprio ruolo” spiega la Ferrari. All’inizio io, per esempio, mettevo sempre i tacchi perché mi sentivo a mio agio così; ora so che posso andare anche con le scarpe da ginnastica e mi sento sicura allo stesso modo. Vestirsi in un certo modo fa parte di un bon ton, di una specie di galateo: il galateo, inteso come rispetto delle regole, risolve in parte le cose perché anticipa i problemi che potrebbe innescare una situazione. Mi ha molto colpito una affermazione di Ibrahimovic che ha dichiarato che non ama andare a pranzo con i colleghi di squadra in qualche modo per non intaccare la sua leadership. Ecco, la famigliarità, secondo me, non sempre è utile.

Soldi soldi soldi

Uno dei temi di cui si parla molto ultimamente è la discriminazione economica, la disparità di salario fra uomini e donne: perché spesso le donne hanno difficoltà a parlare di denaro, a trattare un contratto, chiedere un aumento. E, ovviamente, l’aspetto economico è parte viva del rapporto con il capo. L’aumento di stipendio va chiesto ogni sei mesi” spiega la nostra esperta. Poi, è ovvio, dobbiamo aspettarci di sentirci rispondere un no o un più tardi. Noi donne dovremmo davvero imparare a parlare di soldi perché ci hanno insegnato a non farlo. Certo, dipende da generazione a generazione: però la nostra realtà è sempre stata quella che la donna non è colei che porta a casa lo stipendio più importante, e tanti problemi li abbiamo per questo; per questo sono le donne a restare a casa dopo la materni, perche è quello che conviene fare dato che il loro stipendio è il più basso nella economia famigliare. Bisognerebbe imparare anche a parlare con i capi e fra colleghi di denaro: oggi è un tabù, ma se tutti ci abituassimo a chiedere quanto si prende per un lavoro o una prestazione alla fine riusciremmo a modificare il mercato perché, sapendo quanto la azienda è disposta a dare, si bloccano i giochetti”. Giochetti che giovano molto ai cattivi capi.