Come cambierà il nostro mondo? Parla la sociologa Carmen Leccardi

Per certo, una esperienza come quella della segregazione, del Lockdown mondiale non può non cambiare anche la società. Come? Lo ho chiesto a Carmen Leccardi, professoressa di sociologia della cultura della Università Bicocca di Milano.
Che mondo troveremo quando tutto questo sarà finito?
“Sicuramente troveremo un mondo diverso: possiamo fare previsioni sulla base delle nostre esperienze, si possono fare dei ragionamenti, ma non ci sono dei precedenti soprattutto in questo mondo globalizzato come questo.
In generale dovremo riscoprire, e sarà un piacere farlo, il significato della condivisione dello spazio e del tempo della vita di tutti i giorni. Andare a bere il caffè, fare due passi con un amico, parlarci senza dovere mantenere la distanza di sicurezza. Sarà una riscoperta fondamentale della società: certo, dovremo prepararci a modificare alcuni comportamenti, non sappiamo in quale direzione, se potremo farlo liberamente o se saremo vincolati e in che modo”.
La psicologa dice che non potremo permetterci il lusso della nostalgia…
“Sicuramente ci sarà un periodo più o meno lungo in cui non potemo fare a meno di pensare al prima, al tempo pre-corona virus; e riscopriremo anche da questo confronto una serie di privilegi di cui scopriamo di aver goduto senza esserne coscienti. La libertà di movimento, di andare dove ci garba, prendere la macchina e fare un salto a trovare chi ci è caro. Ci sarà una fase in cui il ritorno alla normalità sarà preceduto da un continuo confronto con l’epoca del corona virus e quella precedente. Ci troveremo di fronte a un lavoro di memoria su quello che siamo stati, che abbiamo goduto, e un confronto con il periodo di clausura in cui siamo stati rinchiusi. Quindi c’è il passato piena libertà, la piena illibertà e una fase di lenta riscoperta della socialità a cui andremo incontro”.
Tutti parlano di guerra al virus, si usano parole legate alla guerra come prima linea, nemici: ma questa viene percepita come una guerra?
“Personalmente sono contraria alle metafore guerresche anche perché trovo che in questo caso noi stiamo confrontando con un virus, con un test di emergenza sanitaria, che richiede delle mobilitazioni a favore della vita, cosa che una guerra non fa mai. La guerra è morte e distruzione mentre qui abbiamo un fronte di vita che noi perseguiamo, difendiamo e proteggiamo: in questo senso parlerei di una mobilitazione per la difesa della vita”.
La ipotesi di aprire in prima fase alle donne, che hanno dimostrato di essere più resistenti al virus, porta a immaginare una società diversa?
“Trovo veramente una specie di ironia della sorte che le donne, anche in questo caso più resilienti, vengano poi usate come una sorta di fronte di fuoco capaci di sgominare questo famoso nemico. Questa capacità di essere più resistenti alla minaccia del virus è senz’altro un dato che gli scienziati hanno messo in luce, che ha certamente a che fare con la dotazione biologica. Ma pensiamo a quanto le donne sono riuscite nelle epoche belliche ad assumere su di sé i ruoli maschili, sono state investite del compito di prendere il posto degli uomini nelle fabbriche e in ruoli considerati maschili: ed è come se adesso venissero di nuovo richieste in un contesto, purtroppo, sempre di diseguaglianza. Perché nel lavoro la loro presenza in posizioni di vertice è sempre molto bassa in percentuale, perché le ragazze sono più brave a livello accademico e questo spesso non viene riconosciuto e perché i costi che pagheranno nella crisi economica che ci aspetta saranno anche maggiori in termini di occupazione e accesso al reddito. Spesso nei momenti di emergenza il posto d’onore è preso dalle donne: sarebbe importante ricordarlo, anche rispetto al personale infermieristico, composto quasi tutto da donne, di cui celebriamo l’eroismo e di cui non dovremmo dimenticarci dopo, quando tutto questo sarà finito”.